2 Giugno, nasce la Repubblica democratica fondata sul lavoro o sui lavoratori ?

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di Matteo Rigamonti

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L’articolo 1 della Costituzione italiana recita:
“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.”
Ma non doveva essere così. O meglio: non doveva essere scritto così.
Nel 1946, in Assemblea Costituente, la proposta iniziale era “fondata sui lavoratori”.
Un’espressione forte, netta, che voleva riconoscere il ruolo centrale delle classi lavoratrici
nella rinascita del Paese.
Ma fu cambiata. Non per un’adesione convinta a un principio condiviso, ma per un
compromesso politico.
La scelta di “lavoro” al posto di “lavoratori” fu una mediazione tra visioni inconciliabili: da un
lato, la spinta del fronte comunista e socialista che voleva porre i lavoratori come
fondamento dello Stato; dall’altro, la prudenza, e la diffidenza, dei democristiani e dei liberali,
che temevano di legittimare troppo il linguaggio marxista.


Si scelse così un concetto più astratto, più neutro, meno schierato, ma forse anche meno
coraggioso.
Un modo per tenere insieme tutti, certo, ma anche per non sbilanciarsi troppo, in un’Italia
che usciva da vent’anni di regime e da una guerra civile.
Una Repubblica “fondata sul lavoro”, dunque.
E oggi, settantanove anni dopo, su cosa si fonda davvero questa Repubblica?
Viviamo un tempo svogliato, incerto, dove il lavoro viene spesso usato come alibi e non
come motore.
Il problema? La burocrazia, dicono. Il costo del lavoro. Le tasse. Ma in fondo, diciamolo, c’è
solo una crisi di voglia.
In un Paese dove il sogno americano ha preso la forma del trading online, del guadagno
facile, del “divento ricco in due clic”, chi parla ancora di fatica, competenza, serietà viene
guardato con fastidio.
Eppure è questo che ci serve. Serve tornare a costruire, non a lamentarsi. Serve sporcarsi le
mani, non cercare scuse.
Nel frattempo cresce un senso di sfiducia nelle istituzioni, che si traduce in astensione.
Nelle elezioni amministrative del 25 e 26 maggio scorso, le affluenze sono state
preoccupanti.
Ma non perché la gente non voglia partecipare.
Perché si è convinta che non serva più: troppe volte ha creduto che le regole valgano solo
per chi sta in basso, mentre in alto tutto sia concesso, e perché si è anche abituata all’idea
di essere sempre e solo la parte che paga, che subisce, che non conta nulla. Un vittimismo
comodo, che spesso diventa un alibi per smettere di interessarsi, per giustificare
l’astensione, per dire che tanto è tutto inutile. E così nasce la sufficienza, quella frase che
ormai è una scorciatoia per non pensare: “tanto sono tutti uguali”, che poi diventa pericolosa,
perché da lì al dire che “i politici non servono”, che “basterebbe uno solo a decidere”, il
passo è breve. E così, mentre le istituzioni perdono credibilità, cresce l’idea che la cosa
pubblica sia un ostacolo, non un valore: tutto ciò nutre gli estremismi, legittima le scorciatoie,
apre la strada al rifiuto della complessità in nome della semplificazione autoritaria. C’è chi
invece fa bene il proprio lavoro, ogni giorno, senza riflettori.


Ma sono sempre di meno, anche perché è più facile parlare del lavoro degli altri che
migliorare il proprio.
Abbiamo parroci di provincia troppo impegnati a sparare a zero sulla politica per
guadagnarsi qualche titolo in cronaca locale, mentre nel frattempo le chiese si svuotano e i
fedeli calano.
Ci sono anche dirigenti sindacali sempre pronti a intervenire su Europa, finanza e guerre nel
mondo, ma sempre meno presenti nelle vertenze locali, nei reparti, nei luoghi dove il lavoro
soffre e si spegne.

E viene da chiedersi se, quei sindacalisti così indaffarati a scrivere editoriali, sappiano
almeno che la Repubblica avrebbe potuto essere fondata “sui lavoratori”, e non solo “sul
lavoro”.
Una parola cambiata per paura, per prudenza, o forse per convenienza.
Ma quel compromesso, fatto settantanove anni fa, ha lasciato un segno: ha iniziato un
processo che ha trasformato il lavoro in un concetto astratto, disincarnato, sempre più
lontano dalle persone.
E oggi, a forza di compromessi, abbiamo perso sia i lavoratori che il lavoro.
Il 2 giugno non celebriamo una bandiera o un discorso da balcone.
Celebriamo, se vogliamo, una domanda che ci riguarda tutti:
Su cosa vogliamo fondare questa Repubblica, davvero?

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