ASMARA E OLTRE : istruzioni per sorprendersi (4/23)

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di Maria Antonella Pratali

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Quarta puntata.

(Asmara, 7 e 8 maggio).
Finalmente liberi da vincoli burocratici, ci dirigiamo verso il parco lussureggiante che circonda Nda Maryam, la cattedrale ortodossa. Sul sagrato, alcuni fedeli si prostrano in preghiera, secondo l’uso di questa religione. L’ombra è fitta, il silenzio fragrante di aromi. Le bacche verdi del pepe spargono profumo speziato, gli eucalipti rilasciano un balsamo che sa di aria pulita; le euforbie, che inizialmente scambio per cactus, si ergono come sculture vegetali, i cui rami, una volta secchi, diventano cavi. G. apre il libro dei ricordi: racconta il rito di una festa di settembre, quando gli uomini dei villaggi arrivavano in città con fasci di euforbia secca. Ogni bambino riceveva un ramo da accendere e battere a terra ai piedi di un adulto, che lo scavalcava come gesto di buon auspicio, regalando poi qualche moneta. Noi chiediamo palloncini; loro vogliono il ramo più grande e fumante possibile. Un diverso tipo di magia, che profuma di tradizione e di fuoco. All’uscita, alcuni uomini chiedono l’elemosina. In piazza Bahti Meskerem, su cui affaccia la chiesa, due o tre bambini ci accostano, in cerca di caramelle. 
Chiudiamo la giornata con una cena al ristorante “Il Sicomoro”.  Su un unico vassoio tondo di metallo posto in centro tavola, ci viene servita una sontuosa injera (pane piatto di teff, un cereale locale) con zighinì (stufato di carni bovine o caprine), insaporito con berberé (peperoncini macinati, zafferano e altre spezie), alliccia (stufato di verdure con zafferano), hilbet (stufato di lenticchie e fave) e shirò (crema di ceci speziata). Si condivide lo stesso piatto e si mangia con le mani, usando pezzi di injera a mo’ di cucchiaio. Al termine del pasto, la cameriera passa con brocca, bacinella e asciugamano. Per i turisti più maldestri, o per chi vuole evitare di mangiare troppa injera, è previsto l’uso di forchette.

8 maggio – Secondo giorno.
Il taxi sobbalza tra una buca e l’altra, portandoci verso gli Uffici dei Trasporti e delle Comunicazioni. Obiettivo: ottenere la patente eritrea. Lasciamo il centro, e con esso l’architettura coloniale: più ci allontaniamo, più il paesaggio cambia ritmo. Le facciate scolorite si alternano a lotti vuoti, le strade si fanno sfilacciate, i carretti trainati da asini o cavalli si moltiplicano. Ai bordi, caprette e pecore brucano fili d’erba impolverati, vigilate da pastorelli immobili come statue. Un asino qua e là osserva il traffico con aria filosofica. Nel mezzo di questa periferia sabbiosa spuntano case nuove, fresche di intonaco. G. ci spiega che sono il frutto della diaspora: ex emigrati in pensione che tornano a casa o che vogliono un rifugio asmarino per le vacanze. Le case nella capitale sono molto ambite, e costose. Arrivati negli uffici preposti, attendiamo la fine di uno dei tanti black-out e intanto ci guardiamo intorno. Molti sono in attesa, ma non ci sono segni di nervosismo; le persone approfittano della lunga pausa per chiacchierare tra loro. Dalle nostre parti, quasi tutti sarebbero accartocciati sul proprio cellulare, muti. La patente, ottenuta senza difficoltà, entra di diritto nella collezione dei souvenir improbabili. 
Un taxi al volo (ne girano molti in Asmara, tutti a tariffa fissa a seconda del percorso, niente brutte sorprese, spesso condivisi con altri passeggeri) e siamo di nuovo in centro. Prossima fermata: l’Ufficio Postale, progettato nel 1916 dall’Ing. Odoardo Cavagnari. 

(Continua. La prossima puntata: L’Ufficio Postale, noleggio auto, si parte per Qohaito)

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