Dialogo con la sindaca Katharina Johanna Zeller: Merano tra identità e trasformazione

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Tempo di lettura:8 Minuti

di Valentina Besana

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Classe 1986, avvocata ed esponente della Südtiroler Volkspartei, Katharina Johanna Zeller è da
poche settimane la nuova Sindaca di Merano. È chiamata a guidare una città chiave dell’arco
alpino: crocevia culturale, culla di tradizioni mitteleuropee e, oggi, specchio di un’identità in
continua evoluzione.
Si presenta con tre parole – Kompetenz, Zielstrebigkeit, Empathie – competenza, determinazione
ed empatia (come scrive sulla sua pagina Facebook): una sintesi efficace del suo approccio
all’amministrazione pubblica e dell’impegno promesso, attento alle famiglie, ai giovani, alla cultura
e aperto al dialogo.
In questa intervista, la Sindaca della città del Passirio ci offre uno sguardo autentico su una
Merano che, forte delle sue radici, si misura ogni giorno con le sfide del presente.

Sindaca, Merano è una città elegante, di cultura e benessere, ma anche moderna e in
trasformazione. Qual è, secondo Lei, il ruolo istituzionale e culturale che Merano è chiamata
a ricoprire oggi, all’interno del Sud Tirolo e delle regioni alpine? E che significato ha oggi,
per Lei, l’identità meranese? 

Merano è sempre stata – e lo è ancora oggi, fortunatamente – una città caratterizzata dall’incontro
di culture diverse. Un luogo che ha saputo attrarre artisti, scrittori importanti, persone di mondo. 
Una città piccola, ma allo stesso tempo davvero cosmopolita. 
All’interno del Sud Tirolo, Merano si distingue per questa apertura, per la sua modernità, per la sua
dimensione multiculturale: è proprio questo che la caratterizza. Abbiamo una vita culturale molto
ricca, con tante associazioni, tanti artisti, tante organizzatrici e organizzatori molto, molto attivi. 
In città si svolgono numerose manifestazioni ed eventi di alta qualità, che portano uno scambio
vivo e continuo e che contribuiscono ad arricchire Merano in modo significativo. 

La Sua elezione ha segnato il ritorno della Südtiroler Volkspartei alla guida di Merano dopo
diversi anni. Quali valori o visioni ritiene che la SVP porti oggi nel governo cittadino? 

Quello che abbiamo voluto trasmettere è l’idea di essere un partito di raccolta, capace di
mantenere viva la propria essenza, ma allo stesso tempo proiettata nel futuro. Tradizionale da un
lato, moderna dall’altro, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo della città. 
Credo che questa combinazione sia stata apprezzata: la tangibilità, la presenza, “l’essere qui” per
le persone, fungere da punto di riferimento per la cittadinanza. Questa vicinanza a chi vive sul
territorio è stata centrale, ed è ciò che abbiamo voluto dimostrare. 

A Merano si parlano ufficialmente tre lingue, e Lei rappresenta il gruppo linguistico tedesco.
Alla luce del censimento 2024, che per la prima volta vede il gruppo italiano leggermente
prevalente (51,37% contro 48,26%), come interpreta questo dato?  
Quale ruolo ritiene di avere in questo contesto e come si traduce il Suo impegno sul piano
scolastico e culturale? 

Questo cambiamento, a mio avviso, è legato a diversi fattori. Da un lato, Merano è una città in
crescita – aumentiamo di circa 300 abitanti all’anno – e probabilmente molte delle persone che si
trasferiscono appartengono al gruppo linguistico italiano. 
Dall’altro, c’è un fenomeno storico: in passato, diverse persone di lingua italiana si sono dichiarate
di lingua tedesca, per timore di non riuscire a trovare lavoro. È un dato che conosciamo. 
Lo abbiamo visto anche durante le elezioni: c’è stato un piccolo caso, perché uno degli assessori
che avrebbe dovuto rappresentare il gruppo tedesco era in realtà dichiarato come appartenente al
gruppo italiano. E non è un caso isolato. 
Con questo ultimo censimento – che non influisce sulle dichiarazioni del gruppo linguistico – forse
le persone sono state più sincere, e questo ha avuto un effetto sui numeri. 
A Merano abbiamo la fortuna di avere le dirigenti scolastiche che affrontano grandi sfide. Penso,
ad esempio, a una classe di scuola in lingua tedesca con 14 alunni: 2 di madrelingua tedesca, 2
che non parlano neanche una parola di tedesco, e il resto che lo parla solo in parte. È una
situazione che preoccupa alcuni genitori. 
A volte si sente dire, come succede anche a Bolzano, che “la scuola in lingua tedesca è dei
tedeschi” e che “chi non parla tedesco non dovrebbe entrarci”. 
A Merano, però, è diverso. Le nostre dirigenti dicono: “Dateci gli studenti, dateci gli spazi, e noi ci
impegniamo a farli studiare bene, senza escludere nessuno”. Questo è un grandissimo valore. 
Anche il fatto che molte famiglie italiane scelgano la scuola in lingua tedesca, secondo me, è un
segnale molto positivo. 
Nella SVP ci sono posizioni diverse su questo tema. C’è chi sostiene che, essendo una minoranza,
dobbiamo tutelare la lingua tedesca con più rigore. Ma qui a Merano abbiamo un approccio più
aperto. 
Io credo che il nostro compito, come amministrazione, sia quello di creare le condizioni perché il
sistema funzioni: mettere a disposizione spazi, sostenere le scuole, supportare le associazioni che
offrono corsi di lingua, investire in progetti linguistici. 

La storia politica del Sud Tirolo narra di periodi turbolenti e di scontri identitari, basti
pensare a figure come Luis Amplatz. Quanto pesano ancora oggi questi nomi nella memoria
politica collettiva? E se dovesse indicare una personalità che, secondo Lei, ha lasciato un
segno profondo, chi nominerebbe?

Se dovessi nominare una figura simbolica per il Sud Tirolo, penserei subito a Silvius Magnago,
storico presidente della Provincia, che ha incarnato un approccio pragmatico e pacifico. In un
periodo molto più difficile di quello attuale – quello delle azioni di Amplatz – Magnago ha sempre
cercato di fare da mediatore tra i due gruppi linguistici, pur avendo un cognome italiano. La sua
capacità di mantenere il dialogo aperto è stata fondamentale. 
È un tema complesso e delicato. Oggi dobbiamo interpretare quelle figure nel contesto storico in
cui vivevano, e riconoscere che si trattava di un’epoca difficile, in cui la propria lingua e cultura non
erano riconosciute o addirittura non tollerate.
Molti gruppi allora hanno insistito su una forma di protesta simbolica, sull’importanza di far sentire
la voce della minoranza linguistica senza ferire nessuno. E questo lo condivido pienamente. Non
condivido, invece, l’idea – che ancora oggi qualcuno porta avanti – secondo cui non si dovrebbe
far parte dell’Italia. Credo che oggi non abbia più alcun senso parlare in questi termini. 

Anzi, il nostro modello è diventato un punto di riferimento: a breve arriverà una delegazione dalla
Cina per studiare il modello sudtirolese, proprio come esempio di come due gruppi linguistici molto
diversi possano convivere naturalmente e in modo costruttivo all’interno dello stesso Paese. 

Si è parlato molto della Sua decisione di non indossare la fascia tricolore in un contesto
ufficiale. È stato poi chiarito che, in quella specifica circostanza, non vi fosse un obbligo
formale. In Sud Tirolo, per ragioni storiche, culturali e linguistiche, è invece prassi
consolidata l’utilizzo del medaglione di rappresentanza. Vuole condividere il senso di quella
scelta e come l’ha vissuta personalmente, anche alla luce delle reazioni pubbliche? Più
recentemente, anche la scelta di non cantare l’inno nazionale è stata oggetto di attenzione e
commenti. Si sente oggetto di un attacco politico e mediatico, o ritiene che queste vicende
possano contribuire a far emergere con maggiore chiarezza il valore di un’identità
istituzionale e culturale che rimane ai margini del racconto nazionale? 

Speriamo! Sicuramente ha provocato reazioni molto diverse. Vorrei innanzitutto chiarire che in
quella specifica circostanza non c’era alcun obbligo formale di indossare la fascia tricolore: si
trattava di una procedura informale, e dunque non era previsto. 
Purtroppo, il tricolore viene ancora oggi strumentalizzato, ed è un tema molto sensibile da noi.
Esiste il medaglione, che rappresenta l’intera città. La mia scelta di indossarlo è stata dettata
proprio da questo: lo considero più inclusivo, perché rappresenta tutta la città. 
Il sindaco uscente lo sapeva perfettamente, perché ne avevamo discusso più volte in giunta.
Purtroppo, però, preferisce pensare: “Siete italiani, quindi dovete indossarlo.” Ma la realtà è che la
legge non ci obbliga a farlo. 
Se me lo avesse chiesto con il sorriso, avrei anche potuto rispondere di sì. Ma è stato il modo in
cui l’ha fatto… Pensavo fosse una cicatrice, e invece basta poco e si riapre la ferita. 
Spero almeno che questo episodio contribuisca a fare chiarezza. 

Che immagine vuole dare Merano alle nuove generazioni? Se dovesse descrivere il “volto”
culturale che la città intende mostrare ai suoi giovani tra dieci anni, lo immagina più
europeo, più legato alla tradizione o più aperto alla sperimentazione?
 
Un po’ tutto. Per me è importante, da un lato, mantenere le nostre tradizioni e sapere che i nostri
figli potranno custodirle. Dall’altro, però, dobbiamo guardare al futuro, all’Europa, all’innovazione.
Dobbiamo guardare ai giovani. 
A Merano abbiamo, ad esempio, un’area di caserme dismesse di circa 30 ettari, dove possiamo
davvero immaginare qualcosa di nuovo: uno spazio che diventi un incubatore culturale, di idee,
dedicato ai giovani. Un luogo che magari possa anche ospitare una realtà universitaria, o istituti di
ricerca, e che possa dare nuovo slancio all’economia. 
Per fortuna abbiamo tanto potenziale: possiamo fare molte cose. 

All’inizio dell’intervista ha citato la ricchezza del tessuto associativo meranese. Guardando
al futuro, secondo Lei c’è oggi un reale ricambio generazionale nelle associazioni storiche e
bandistiche, o si tratta di una stagione che rischia di esaurirsi? E le altre esperienze
associative?

Spesso sono le famiglie a coltivare queste tradizioni, ma le ritrovo anche nei ragazzini che incontro
nelle scuole, ad esempio nel Consiglio comunale dei bambini.
Noi abbiamo tantissime associazioni: da quelle che custodiscono la tradizione, a quelle legate alla
cultura più libera, nata “dal basso” – sempre di altissima qualità. 
Di questo possiamo davvero essere fieri. 
Abbiamo appena concluso il festival Asfaltart, in cui tutta la città si trasforma in un grande parco
culturale e creativo, che accoglie artisti e spettatori da tutto il mondo. L’anno prossimo compirà
vent’anni! 

Sindaca, infine, se dovesse scegliere un’immagine o un luogo che racchiude per Lei
l’essenza di Merano, quale sarebbe? 

Sicuramente il nostro centro città. È piccolo, ma si percepisce chiaramente come sia stato
pianificato con attenzione: si vede che, all’epoca, c’era l’intenzione di costruire una città di cura,
una città giardino. 
C’è una qualità architettonica e artistica che è evidente, e che oggi dobbiamo cercare di trasferire
anche in altri quartieri. 
Una qualità, ma anche una sensibilità nel costruire una città a misura d’uomo. 
Abbiamo le passeggiate d’inverno, le passeggiate estive… Merano è una città che è stata pensata
per far star bene le persone.

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