di Valentina Besana
Quando si parla di lingua e dialetti, è impossibile non pensare ad Alessandro Manzoni e al suo ruolo nella costruzione dell’italiano moderno. Attraverso I Promessi Sposi, egli si fa interprete dell’urgenza di una lingua unitaria per il giovanissimo Stato italiano, proponendo il fiorentino come modello linguistico.
Questa riflessione assume un significato particolare proprio a fine gennaio 1868, quando il ministro della Pubblica Istruzione Emilio Broglio nominò una commissione per diffondere l’uso della buona lingua e della buona pronuncia tra gli italiani. Manzoni, presidente della sottocommissione milanese, rispose con il celebre scritto Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, in cui propose l’adozione del fiorentino borghese come lingua nazionale. Questo momento segna un passaggio decisivo nel lungo e complesso processo di standardizzazione linguistica italiana.
Ma il percorso di Manzoni verso questa scelta linguistica era iniziato molto prima. La sua evoluzione segue da vicino la stesura dei Promessi Sposi. La prima versione, Fermo e Lucia (1821-1822, mai pubblicata), caratterizzata da un’impronta gotica e a mio parere particolarmente affascinante, ricca di ibridismi linguistici e lombardismi che rendono l’ambientazione di Renzo e Lucia estremamente realistica. Con la prima edizione ufficiale, la Ventisettana (1825-1827), Manzoni attinge ai vocabolari per uniformare la lingua al fiorentino scritto. Tuttavia, è solo con la Quarantana (1840-1845) che la sua scelta diventa radicale: il fiorentino parlato diventa il modello di riferimento per un’unità linguistica nazionale.
Di fronte alla visione di Manzoni, Carlo Porta sembra ricordarci, invece, gli alti fini letterali del dialetto con la sua ineguagliabile poetica in milanese. E allora sorge spontanea la domanda: caro Manzoni, era davvero necessario “sciacquare i panni in Arno”? E se invece li avessi sciacquati nell’Adda? Questa battuta ironica nasce nei salotti letterari dell’epoca come risposta scherzosa al motto manzoniano e vuole sottolineare che lo scrittore, invece di uniformarsi al fiorentino, avrebbe potuto valorizzare le radici linguistiche lombarde, a lui più vicine.
Al di là della provocazione, riflettere sulla lingua letteraria di Manzoni apre interrogativi più ampi: quali sarebbero potuti essere i modelli statali, linguistici e culturali alternativi a quello che si è poi realizzato? Avrebbero potuto essere più rispettosi delle peculiarità dei popoli che entrarono a far parte del Regno d’Italia?
Interrogarsi sul passato, con le sue scelte e contraddizioni, non significa certo voler cancellare l’idea d’Italia vagheggiata ai tempi di Manzoni. Piuttosto, significa capire cosa avrebbe potuto essere per immaginare cosa potrebbe diventare. Perché l’Italia, sul piano culturale, era grande ben prima di essere politicamente unificata. La sua ricchezza risiede proprio nelle molteplici sfumature della sua lingua e nei mille accenti che, per dirla con Dante, danno voce ai diversi modi in cui “il sì suona” tra le torri e i campanili della nostra penisola.