Cento anni ci separano dalla nascita di un libro. Era il 1924, anno di nascita di Mein Kampf dettato dal giovane Hitler nella cella del carcere di Landsberg. Otto anni ci separano invece dal 2016, quando la Germania ne consentì la diffusione dopo anni di divieto, ritenendo che solo la conoscenza potesse evitare il ripetersi della catastrofe. Per anni Stefano Massini ha lavorato incrociando la prima stesura del libro-manifesto con i testi e i comizi del Führer oltre che con gli immensi materiali delle Conversazioni di Hitler a tavola raccolte da Picker, Heim e Bormann. Oggi Massini consegna al palcoscenico uno spettacolo duro ma necessario, in cui Mein Kampf emerge in tutta la sua sconcertante portata. Perché queste parole hanno ipnotizzato le masse? Perché la Storia ha mutato direzione su queste pagine? E noi, spettatori del 2024, saremmo davvero impermeabili all’ascesa dal basso di questo profeta della rabbia? Mein Kampf è l’agghiacciante Verbo del Novecento più distruttivo, camuffato dentro la paranoica autobiografia di un invasato. Dal primato della razza all’apoteosi del condottiero, dalla smania per il riscatto alla febbre per la propaganda, va in scena l’impalcatura del nazionalsocialismo, offerto senza filtri da Massini con lo stile ossessivo, barocco ed enfatico del testo originario, in un millimetrico studio teatrale di ritmi, toni e affondi verbali del dittatore: perché la comprensione del meccanismo è l’unico antidoto al suo replicarsi.
IL TEATRO COME NECESSARIO ESPERIMENTO DI CONOSCENZA
Estratto dell’intervista a Stefano Massini per il programma di sala dello spettacolo
Stefano Massini, come è nata l’idea di portare in scena Mein Kampf di Adolf Hitler?
Questo spettacolo ha una duplice genesi. Ebbi la prima ispirazione agli inizi degli anni 2000: durante una lezione alla Scuola di Teatro del Piccolo, Luca Ronconi sottopose alle allieve e agli allievi il notissimo monologo con cui si apre il Riccardo III di William Shakespeare «Ora, l’inverno del nostro scontento…». Per evitare che lo affrontassero con eccessivo lirismo, spiegò loro che, quando il testo fu rappresentato per la prima volta, nel pubblico contemporaneo inglese era ancora vivo il ricordo del Riccardo personaggio storico, causa di rovina, guerra, distruzione e morte. «Non dovete pensare a un re con l’ermellino – disse – magari soltanto un po’ disgraziato fisicamente, dovete visualizzare Adolf Hitler, Mein Kampf». All’epoca ero assistente e l’immagine mi colpì molto, tanto che riflettei insieme a lui su come sarebbe stato avere il coraggio di portare in scena quel testo. Per ragioni culturali personali, ho sempre avuto un rapporto molto stretto con il tema dell’Olocausto: uno dei miei primi lavori ad aver conosciuto una distribuzione importante nei teatri italiani fu Processo a Dio, con Ottavia Piccolo e la regia di Sergio Fantoni, dove si parlava dei campi di sterminio. In tempi recenti – di nuovo insieme a Ottavia, con Paolo Pierobon e la regia di Mauro Avogadro – abbiamo portato in scena Eichmann. Dove inizia la notte; così come ebraismo, guerra e totalitarismi giocano un ruolo fondamentale anche in Lehman Trilogy. Mi misi a lavorare sulla provocazione di Ronconi, anche se portare in teatro Mein Kampf allora sarebbe stato impossibile perché era ancora un testo proibito. Gli feci leggere alcune pagine che avevo scritto – poi confluite nel materiale di questo spettacolo – e lui mi suggerì, se un giorno mai avessi avuto il modo di realizzarlo, di non affidarlo a un attore, cosa che avrebbe comportato il pericolo dell’istrionismo, ma di interpretarlo in prima persona, per dare il giusto peso alle parole dette. Arriviamo al 2016. In quel periodo, poiché un’altra mia opera era rappresentata in Germania, nei teatri pubblici tedeschi, l’editore mi inviava periodicamente le recensioni. Ogni volta che ricevevo la rassegna stampa, accanto all’articolo sul mio spettacolo, vedevo titoli a caratteri cubitali sull’evento del momento, la dibattutissima e contestata decisione del governo tedesco di riportare Mein Kampf nelle librerie. Dopo decenni in cui era stato rigorosamente proibito – tuttora in alcune parti del mondo lo è: in Austria, ad esempio, il possesso di una copia è un reato penale – tornava sugli scaffali con una motivazione già sostenuta, in tempi andati, da Bertolt Brecht e Primo Levi, ossia che la conoscenza fosse indispensabile per evitare il ripetersi della catastrofe; all’opposto, la proibizione, il divieto anche soltanto di possedere una copia del libro
“maledetto” ne avevano enormemente moltiplicato il fascino. Era, secondo me, un’occasione molto forte, irrinunciabile e necessaria, per porre in atto un esperimento spiazzante e feroce. Davanti a un video in bianco e nero, un po’ sgranato, in cui Adolf Hitler pronunci le parole di Mein Kampf, la gran parte di noi reagirebbe con un rifiuto netto. Ma se – come faccio dire nel prologo a Emil Erich Kästner, uno dei tanti scrittori di allora, costretti a smettere di scrivere e ad assistere ai roghi dei libri voluti da Goebbels – le stesse parole venissero dette, oggi, non da Hitler, non da Goebbels, non da Himmler, ma da chiunque altro, prive di alcun riferimento ad Auschwitz, a Treblinka, ai forni crematori e alle camere a gas, ci troverebbero veramente così ostili? Quando, alcuni anni fa, gli parlai di questo progetto, il direttore del Piccolo, Claudio Longhi mi assicurò subito la partecipazione del teatro e non solo perché ne sono artista associato, ma perché conveniva con me che questo esperimento fosse oggi più che mai necessario. Cento anni fa, in una cella del carcere di Landsberg, quelle parole venivano dettate da Hitler; a distanza di un secolo ci raggiungono ancora con la stessa forza, in un contesto in cui la politica si è trasformata in un grande reality show, il voto in televoto e il “rodeo” elettorale in un telequiz che ha come monte premi la guida del paese. E il secondo classificato? «Non ha vinto!», per cui, invece di fare, legittimamente, l’opposizione, deve solo tacere.
In che modo hai deciso di portarlo in scena?
Di nuovo torno a parlare di Ronconi e del cortocircuito formale con cui rileggeva il dramma borghese attraverso codici di lettura altri e stranianti. Che cosa accade se a Mein Kampf si applicano le forme, i modi, i toni del romanzo di formazione – che appartiene al nostro DNA, dall’Odissea a Pinocchio e dove quasi sempre abbiamo a che fare con un eroe positivo – che cosa avviene, se a questo novello Wilhelm Meister si fanno pronunciare le parole di Hitler? E se quelle parole ci colpiscono, se lo spettacolo ci tocca intimamente, significa che siamo anche noi hitleriani? Se alla fine applaudiamo, stiamo applaudendo Hitler? Tutt’altro. Significa che l’albero che ha dato quei frutti, lungi dall’essere secco, continua a fiorire in altro modo: il rischio di questi tempi non è tornare a marciare nelle piazze con gli stendardi e la svastica, non è la costituzione di una nuova forma di nazionalsocialismo, bensì l’avvento di individui diversi da Hitler nei modi, nei toni, nell’iconografia, perfino nel repertorio socio-culturale-politico, ben lontani da tutta la paccottiglia pseudo mitologica hitleriana, ma che siano tuttavia in consonanza con il senso più profondo delle sue parole. La società contemporanea ha eretto un monumento al concetto di empatia, dimenticando che essere empatici non è parlare alla testa ma – come Hitler stesso dice – al petto, allo stomaco, alle viscere, dove l’istinto regna incontrastato, dove albergano rabbia, orgoglio, frustrazione e paura: lì Hitler getta il proprio seme. È la cosa per me più impressionante di questo materiale ed è la sua estrema pericolosità.
Quali sono, secondo te, le parole chiave del delirio hitleriano?
Nei materiali ai quali ho attinto per scrivere il testo – non soltanto la prima versione di Mein Kampf, ma anche i discorsi di Hitler, quelli di Goebbels e Himmler, l’impressionante materiale delle Conversazioni di Hitler a tavola – spesso Hitler torna a parlare della scalata al potere da parte un ragazzo venuto dal niente, oggi lo si definirebbe underdog, che gradualmente acquisisce consapevolezza di sé. Uno snodo fondamentale è l’intuizione che Hitler ha quando è ricoverato in un ospedale da campo a Pasewalk, in Pomerania. Vi si trova perché è diventato temporaneamente cieco, dopo essere venuto a contatto, al fronte, con un gas nervino, e vi resterà per diverse settimane, immerso nella disperazione più profonda, perché ormai è evidente che la Germania sta perdendo la guerra. Lì la notizia della resa lo raggiunge e lì accade qualcosa, che egli stesso in Mein Kampf descrive come un momento per lui essenziale di svolta, quando percepisce la forza straordinaria della disperazione, che definisce il combustibile perfetto che si annida nel petto di ciascuno di noi.
Nel cortile dell’ospedale, davanti a una truppa di feriti e mutilati, ha la sensazione di avere davanti a sé l’intero popolo tedesco, mai così umiliato, mai così offeso mai così schiacciato e proprio per questo mai così pronto alla rivoluzione, al riscatto, alla vendetta. Disperazione è la parola chiave, ed è quella stessa disperazione a veicolare il consenso. Ed ecco l’aggancio con l’attualità: oggi viviamo in una
fase storica di grande paura, stiamo assistendo a una patologia che si è messa in moto a livello planetario dopo il tramonto delle ideologie e dopo il crollo del capitalismo che abbiamo raccontato in Lehman Trilogy. La convinzione che la caduta del Muro di Berlino avesse sancito la vittoria del capitalismo sul comunismo è stata smentita dal crollo della banca Lehman Brothers, dalla crisi dei mutui subprime, e dalla conseguente decadenza culturale sociale e politica dell’Occidente. Oggi facciamo i conti con uno sbando generalizzato, aggravato dal fatto che la borghesia dell’Occidente industrializzato non riesce più a tenere il passo con una tecnologia che, esattamente come all’epoca della prima rivoluzione industriale, sta cambiando i modi della produzione e generando, inevitabilmente, un conflitto. Quando le operaie e gli operai delle grandi fabbriche tessili, alla fine del Settecento, per il timore di perdere il lavoro, incastravano il sabot, lo zoccolo – da cui il nostro sabotare – nei telai a vapore per danneggiarli, quando Pirandello, all’inizio del Novecento, scriveva i Quaderni di Serafino Gubbio operatore, terrorizzato dall’avvento della tecnologia, ecco tutto questo noi oggi lo viviamo all’ennesima potenza perché abbiamo subordinato la nostra identità all’high-tech: rischiamo l’attacco di panico se il cellulare non ha campo, se il navigatore satellitare non ha collegamento non sappiamo dove andare, abbiamo bisogno di supporti, di memoria, di un cloud continuo che è fuori da noi, che non è la nostra personale memoria, bensì un supporto esterno. Nello sbando – che Hitler racconta come una forma di fertile disperazione, l’humus nel quale vorrebbe porre il proprio seme – si annida il pericolo. Quando abbiamo presentato insieme questo lavoro, lo storico Alessandro Barbero ha posto l’accento esattamente su questo aspetto: il timore non sta nel riproporsi del fascismo e del nazifascismo in quelle identiche forme, ma nel loro ripresentarsi in modalità nuove, completamente trasformate. Viviamo nel secolo successivo al trionfo della psicanalisi, da Sigmund Freud a Carl Gustav Jung, fino ad arrivare a Erich Fromm: siamo nell’epoca in cui ci illudevamo che ogni istinto umano fosse stato imbrigliato, tutto ci aveva lasciato credere di poter controllare le emozioni. Oggi, all’opposto, siamo in una fase in cui la rabbia, l’urlo, l’aggressività stanno di nuovo diventando un combustibile politico. E non eravamo preparati.
Poco fa parlavi della rabbia e della disperazione di Hitler e di dove lo hanno condotto. Anche oggi – la cronaca ce lo insegna – i giovani sono vittime di un malessere che si traduce in una violenza esercitata in un contesto, tuttavia, per lo più privato e familiare. Che cosa ne pensi?
Questo spettacolo nasce dalle parole di un giovane che racconta di sé, della propria nascita a Braunau sull’Inn, circondato «dalla composta nullità di quelle vite imbalsamate», come scrive. È un discorso che potrebbe benissimo riecheggiare nei pensieri di un ragazzo di provincia che, magari, prova le stesse sensazioni. Tuttavia, oggi siamo abituati, soprattutto i giovani, a virtualizzare: la rabbia si sfoga sotto forma di insulto online. L’attacco, la concorrenza, la competizione, l’antagonismo, il bullismo avvengono sotto forma di hate speech, di body shaming: sono parole digitate e lanciate nella rete. Il corpo non esiste, è tutto virtuale, è tutto “a parole”. Poi, davanti alla fidanzata, al fidanzato, che si è stancata o stancato di te si va in tilt perché non si è abituati ad avere un rapporto con il corpo, perché la violenza fisica è altro da quella verbale. Qui accade lo stesso: Hitler parla, con un tono enfatico, barocco, compiaciuto, strabordante, logorroico. Affastella parole su parole, sulla pagina bianca che è la scena dello spettacolo, fino a quando cominciano a precipitare oggetti concreti: una valigia, un cappotto, un paio di scarpe. Cadono quintali di libri, si infrangono vetri. È un continuo costringere a ricordare, un caveat, un promemoria del fatto che le parole hanno conseguenze. È un monito per il pubblico più giovane a riflettere su parole come «la guerra è selezione dei migliori» perché significa teorizzare che solo alcuni essere umani debbano andare a morire, ma chi mi dice che io non potrei essere tra questi? Quando Hitler afferma in modo esplicito che la democrazia è una menzogna e che nel gioco degli scacchi «c’è un solo re con numerose sacrificabili pedine», significa che quella libertà totale che i giovani danno per scontata, abituati a collegarsi a internet per esprimere liberamente la propria opinione, quella possibilità potrebbe essere, un giorno, tranquillamente revocata. Il nostro materiale ci racconta insomma due cose: intanto che le parole hanno conseguenze concrete di cui è fondamentale tenere conto e che quella democrazia, che è stata conquistata con tanta fatica e oggi
potrebbe apparire logora, è un privilegio, un bene di cui prima di tutto va compresa l’importanza e che va difeso con vigore.
OLTRE LA SCENA | MEIN KAMPF
giovedì 10 ottobre, Teatro Strehler, ore 18,00
| Chi è di scena
Incontri pre-spettacolo a pochi minuti dall’andata in scena: un momento informale di confronto tra pubblico e operatori del teatro sui temi dello spettacolo.
mercoledì 16 ottobre, Chiostro Nina Vinchi, ore 18,00
| Segnalibro
Intorno a Mein Kampf
Stefano Massini in dialogo con Federico Fubini
Stefano Massini, interpellato da Federico Fubini (Firenze, 1966) inviato e editorialista di economia del «Corriere della Sera», approfondisce la genesi e i temi del volume pubblicato da Einaudi (Collezione Teatro, 2024), e la sua successiva traduzione in spettacolo teatrale. Addentrandosi nelle pieghe di quello che lungamente è stato considerato un “libro proibito”, Massini ne propone una personale “biopsia”, una lettura che ne smonta la “leggenda” e ne individua i processi, i funzionamenti nella costruzione di una macchina dell’odio e della violenza, i cui echi, purtroppo, si propagano nel presente. Con la consapevolezza che niente può distruggere l’orrore più del senso critico.
Giovedì 24 ottobre, Teatro Strehler, ore 18,00
| Chi è di scena
Incontri pre-spettacolo a pochi minuti dall’andata in scena: un momento informale di confronto tra pubblico e operatori del teatro sui temi dello spettacolo
Piccolo Teatro Strehler (Largo Greppi – M2 Lanza), dall’8 al 27 ottobre 2024
Mein Kampf
di e con Stefano Massini, da Adolf Hitler
scene Paolo Di Benedetto, luci Manuel Frenda
costumi Micol Joanka Medda, ambienti sonori Andrea Baggio
produzione Teatro Stabile di Bolzano, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
in collaborazione con Fondazione Teatro della Toscana
Orari: martedì e sabato ore 19.30; mercoledì e venerdì ore 20.30; domenica, ore 16. Lunedì e giovedì riposo.
Durata: 80 minuti senza intervallo.
Prezzi: platea 40 euro, balconata 32 euro
Informazioni e prenotazioni 02.21126116 – www.piccoloteatro.org