di Matteo Rigamonti
I recenti divieti di accendere falò nella Brianza, motivati dalla necessità di ridurre l’inquinamento
atmosferico, ci spingono a riflettere sul senso di proporre manifestazioni come la Giubiana in luoghi
dove non è mai stata parte della tradizione locale. È importante mantenere vive le tradizioni
autentiche, così come lo è proporre soluzioni sostenibili nel rispetto dell’ambiente, ma introdurre
eventi come la Giubiana, con il classico falò e il fantoccio della strega, in un territorio che non ne ha
memoria storica rischia di apparire come una forzatura culturale.
Questa tendenza si inserisce in un fenomeno più ampio: l’adozione di eventi standardizzati come le
“notti bianche” o i festival di “street food”, che sembrano format turistici confezionati per attrarre
pubblico ma che spesso si rivelano estranei alla natura del territorio. Immaginiamo di importare un
evento enogastronomico dalle Langhe o dalla Valtellina per promuovere prodotti vinicoli in una zona
che non ne produce: il risultato sarebbe un evidente scollamento tra l’evento e la realtà locale. Lo
stesso accadrebbe con manifestazioni di origine religiosa tipiche delle località costiere, come la festa
della Madonna del Mare. Traslata sul Lambro, diventerebbe a dir poco ridicola. Da questi esempi
emerge chiaramente quanto siano inutili, e spesso controproducenti, le forzature culturali.
La Giubiana stessa, con il suo ormai consolidato “format” di falò, fantoccio della strega, risotto con la
luganega e vin brulé, è diventata un modello replicabile, spesso privo di consapevolezza storica. Il
rogo della strega, per esempio, è un’aggiunta medievale che non ha nulla a che fare con le origini
pagane della festa, quando il fantoccio rappresentava simbolicamente gli spiriti maligni da scacciare.
Persino Marco Gavio Apicio, il celebre gastronomo romano e precursore del vin brulé (sì,
probabilmente dobbiamo a lui l’idea di speziarlo), si chiederebbe come mai il suo contributo alla
gastronomia sia finito accanto a un falò simbolico di cui non avrebbe mai sentito parlare. Per di più,
Apicio non avrebbe neanche saputo cosa fossero il riso o le streghe: il primo non era ancora arrivato
nel mondo romano, e le seconde erano concetti che appartengono a un’epoca molto successiva.
Questo dimostra quanto sia facile combinare elementi di epoche e contesti diversi per creare una
tradizione che rischia di sembrare priva di autenticità.
Il nostro territorio ha una vocazione ben definita: industriale, artigianale, lavorativa, profondamente
legata a una tradizione rurale fatta di ingegno e concretezza. Tentare di venderlo attraverso un format
turistico preconfezionato, come se fosse necessario competere con i comuni vicini, significa ignorare
e svilire la sua vera natura. Proporre eventi autentici, che rispettino il nostro passato e al tempo
stesso guardino al futuro con soluzioni moderne ed ecosostenibili, sarebbe invece un modo per
valorizzare le nostre radici.
Forzare l’introduzione di manifestazioni estranee non arricchisce il territorio, ma rischia di
trasformarlo in una copia maldestra di altre realtà. È tempo di riscoprire la nostra autenticità,
rispettando ciò che siamo e promuovendo iniziative che riflettano davvero l’identità della nostra
comunità, senza snaturarla.