di Matteo Rigamonti
La storia ci insegna che il territorio italiano ha sempre riflettuto la sua complessità e diversità.
Nel Nord Italia tardo medievale, ogni comunità sviluppava un proprio comune attorno al
campanile, simbolo di autonomia e identità locale. Questo fenomeno ha dato vita a una mappa
di piccoli enti amministrativi, ciascuno profondamente radicato nella propria comunità. Al Sud,
invece, la centralizzazione monarchica e il sistema feudale favorirono la formazione di grandi
entità territoriali, prive di un legame diretto con le specifiche comunità locali. Queste differenze
storiche hanno plasmato due visioni opposte dell’amministrazione territoriale, lasciando
un’impronta che persiste ancora oggi.
Nel Nord, questa frammentazione è stata in parte ridotta già in epoca moderna, con
l’aggregazione forzata di molti piccoli comuni durante il periodo postunitario e successivamente
in epoca fascista. Tuttavia, questa unificazione amministrativa non ha cancellato le identità locali,
che continuano a vivere nella memoria collettiva delle comunità. Ancora oggi, molte persone si
identificano come residenti della loro frazione piuttosto che del comune in cui sono
amministrativamente inserite. Frasi come “Io sono di Oriano (fuso nel 1927), non di Cassago”,
“Io sono di Agliate (aggregato nel 1869), non di Carate”, “Io sono di Villa Raverio (aggregato nel
1869), non di Besana” riflettono un sentimento radicato ed ereditato da oltre
centocinquant’anni. Nella sola Lombardia, con oltre mille fusioni negli ultimi 150 anni, questa
identità locale rischia di essere cancellata, percepita come un’ulteriore perdita di autonomia e
connessione con il territorio.
Negli anni 2014-2015, la promozione delle fusioni dei comuni si inserì in un quadro più ampio
di iniziative centralistiche, tra cui l’abolizione delle province e la riduzione degli amministratori
locali sancita dalla Legge Delrio. Il Partito Democratico, all’epoca al governo, promuoveva con
forza le fusioni come soluzione per razionalizzare le risorse e migliorare l’efficienza dello Stato.
Tuttavia, questo approccio si basava su una visione distante dalle realtà locali e su incentivi che
sembravano più una seduzione che una vera opportunità. Gli amministratori locali di stampo
federalista e autonomista, che resistettero a queste pressioni, dimostrarono lungimiranza: poco
tempo dopo, l’obbligatorietà delle gestioni associate dei servizi fu abolita, dimostrando
l’inconsistenza di quella strategia.
Un tema centrale da considerare è che le fusioni non garantiscono realmente l’ottimizzazione
dei costi. A differenza del settore privato, dove i rendimenti di scala possono abbassare le spese
all’aumentare della produzione, nel settore pubblico questa logica non si applica. Un comune
più grande non è più economico da gestire: richiede invece una struttura organizzativa più
complessa e dispendiosa, ad esempio con figure come i dirigenti, non obbligatori nei piccoli
comuni. Inoltre, l’amministrazione di un territorio esteso allontana le istituzioni dai cittadini,
compromettendo la connessione diretta che è il punto di forza dei piccoli comuni.
Un altro elemento cruciale è la perdita delle eccellenze locali. I piccoli comuni, pur con alcune
carenze, eccellono spesso in settori specifici, come la gestione virtuosa delle risorse o
l’erogazione di servizi innovativi. Le fusioni rischiano di normalizzare queste eccellenze,
sacrificandole in nome di un’efficienza che raramente si realizza. La soluzione non è fondere i
comuni, ma attuare gestioni associate mirate, che permettano di colmare le lacune senza
compromettere le identità e le competenze locali e senza obbligare nessuno ad attuarle nel
caso non siano convenienti.
Il quadro normativo attuale, però, pone ulteriori problemi. La legge consente ai consigli
comunali di decidere una fusione senza che ci sia l’obbligo di un referendum vincolante, ma
solo consultivo. Questo significa che una decisione così importante per il territorio può essere
presa senza un reale coinvolgimento dei cittadini, spesso ignari di tali progetti al momento delle
elezioni. Questo è ulteriormente aggravato dal fatto che, in molti casi, i gruppi eletti non
presentano nei loro programmi elettorali una visione chiara sulle intenzioni future. Spesso, temi
di fondamentale rilevanza per la comunità vengono lasciati fuori, minando la trasparenza e la
fiducia tra amministratori e cittadini.
Per garantire una maggiore rappresentanza democratica, sarebbe necessario introdurre due
riforme fondamentali. La prima è rendere obbligatorio un referendum vincolante per approvare
ogni fusione, coinvolgendo direttamente i cittadini nelle decisioni che riguardano il futuro del
loro territorio. La seconda consiste nel consentire ai comuni di recedere da una fusione entro un
periodo di cinque o dieci anni, per correggere eventuali problemi emersi e restituire ai cittadini
la possibilità di esprimere nuovamente la propria volontà.
Queste proposte trovano il loro fondamento nella volontà di rafforzare il diritto democratico
all’autonomia, un principio che ha animato numerosi comitati locali fin dai primi tentativi di
riforma dell’ordinamento dello Stato. Tra i primi esempi di resistenza territoriale, ricordiamo il
comitato “No alla fusione” in provincia di Sondrio, attivo già dal 2013, e il “Comitato Contro La
Fusione Dei Comuni Dell’Alto Lario”, operativo tra il 2015 e il 2017. Da questi nuclei iniziali sono
nati molti altri comitati in tutta Italia, ciascuno legato alle specificità del proprio territorio, ma
uniti dall’obiettivo comune di preservare l’identità delle comunità locali. Più recentemente,
questa spinta si è evoluta in iniziative di portata nazionale, come il “Comitato Nazionale NO
Fusione dei Comuni”, che nel maggio 2024 ha riunito i rappresentanti dei Comitati No Fusione
di tutta Italia, dal Nord al Centro e al Sud. Questi movimenti nascono per sottolineare
l’importanza di una scelta che, una volta presa, risulta irreparabile, e hanno l’obiettivo di
sensibilizzare le istituzioni e i cittadini sulla necessità di tutelare il diritto all’autonomia e
all’autodeterminazione delle comunità locali.
In conclusione, se il problema è che sempre meno persone vogliono mettersi al servizio dello
Stato, candidandosi a sindaco o consigliere comunale, al punto da pensare che l’unica
soluzione sia accorpare più comuni, allora siamo davvero alla fine della democrazia
rappresentativa come la conosciamo. È indecente pensare che tagliare i costi della politica sia
una spesa necessaria da ridurre, quando in realtà si tratta di mettere mano alla democrazia
stessa, come è già accaduto in passato. La retorica del risparmio è stata usata per giustificare
operazioni come il taglio del numero dei parlamentari, presentato come un’innovazione,
quando in realtà il risparmio è stato del tutto irrilevante. Allo stesso modo, voler risparmiare sui
pochi soldi che percepiscono consiglieri, assessori e sindaci dei piccoli comuni è lo specchio
dello stesso scempio. Ridurre la politica a un costo inutile significa privare i cittadini dell’unico
strumento che hanno per rappresentare le proprie istanze e mantenere un rapporto diretto con
le istituzioni. Inoltre, è nostro dovere morale e civile non abolire queste istituzioni democratiche,
ma difenderle con rispetto e riconoscenza per coloro che, prima di noi, hanno lottato nella
trincea del piccolo consiglio comunale per portare avanti le istanze della propria gente. Ogni
piccolo comune rappresenta una storia, un’identità, un sacrificio collettivo che non può essere
cancellato in nome di un risparmio illusorio o di una finta modernità. Preservare questi spazi
democratici significa onorare il passato e garantire un futuro in cui la voce di ogni comunità
possa continuare ad essere ascoltata.