di Patrizia Monzeglio
E io da che parte starei se mi trovassi in quella situazione? È questa la domanda che ognuno di
noi si pone vedendo “Campo di battaglia”, l’ultimo film di Gianni Amelio, presentato alla 81ª Mostra
del Cinema di Venezia. La battaglia di cui parla è quella della coscienza, il dilemma morale di chi si
trova a dover scegliere fra il bene e il male e deve farlo in situazioni così estreme da non riuscir più
a distinguere dove finisce l’uno e inizia l’altro.
In un ospedale militare, negli ultimi mesi della Prima Guerra Mondiale, due medici devono
decidere la sorte dei feriti, fra i quali si trovano simulatori e autolesionisti. Stefano (Gabriel
Montesi) non ha dubbi: rimanda tutti a combattere senza nessuna compassione, perché li
considera vigliacchi che lasciano i compagni morir al posto loro. «A guerra finita onesti e valorosi
saranno tutti morti e a far l’Italia resteranno solo i furbi» afferma convinto. Giulio (Alessandro
Borghi) prova invece pietà per quei poveri ragazzi sofferenti e traumatizzati, ed è disponibile a
procurar loro, clandestinamente, mutilazioni e malattie. Una scelta che eviterà il rischio di una
possibile morte in combattimento, ma che condizioneà pesantemente l’esistenza di quei giovani
una volta tornati a casa.
Due visioni opposte, entrambe frutto di un genuino senso morale e di giustizia, ma difficili da
giudicare secondo la stretta logica bene-male. «Non ho fatto un film di guerra, ma sulla guerra» ha
affermato il regista, che con il suo lavoro ci mostra le ragioni di tutti e il conflitto delle coscienze di
fronte all’insensatezza della guerra stessa. Un film che potrebbe dirsi riuscito nel proposito grazie
all’accuratezza della ricostruzione degli ambienti, alla fotografia e a certe indovinate sequenze, ma
un’opera che tende a perdersi quando, nella seconda parte, la storia vira su un nuovo tema:
l’arrivo della “Spagnola” che miete vittime fra militari e civili.
Immediato è il parallelismo fra il 1918 e i nostri giorni sul doppio fronte guerra-epidemia, rafforzato
da una toccante sequenza di camion militari che sfilano in coda e che non possono non ricordare
Bergamo nei giorni più tragici del Covid. Ma nello svolgimento drammaturgico questo nuovo
argomento risulta slegato dal primo lasciando la sensazione di veder due film in uno. Meglio
sarebbe stato evitare di disperdere il racconto in troppi spunti narrativi e dar più spessore ai
personaggi e ai i pregressi legami che li uniscono, nel film appena accennati.
Un’opera quindi di luci e di ombre, con una parte ben riuscita e una seconda più debole. Qualche
difetto di sceneggiatura e una certa rigidità interpretativa degli attori incidono sulla qualità del
risultato finale ma nel complesso rimane un film interessante, dove si vede la mano del maestro
nel ricostruire la realtà della guerra al di là della retorica, quella retorica che tende a ricordare il
1918 solo come “l’anno della vittoria”, senza dar peso ai drammi che l’hanno accompagnato.